Caro 2026,
Ti scrivo una lettera aperta come infettivologa, ma anche, in primis, come medico giovane.
Vorrei chiederti, innanzitutto, se fosse possibile per le tendenze di quest’anno evitare le pandemie o le epidemie da virus emergenti: un po’ come i jeans a vita bassa, sono iconiche ma al tempo stesso non stanno poi bene a nessuno.
Del resto, ci portiamo ancora dietro le cicatrici provocate dal Covid, le immagini delle Terapie Intensive piene e delle strade vuote, adese agli occhi come gli adesivi del distanziamento incollati sulle sedie delle sale d’attesa.
Non sappiamo imparare, tanto. Lo dimostra l’Influenza, che continua a portarsi via persone nonostante i vaccini disponibili, nonostante le collezioni di mascherine chirurgiche stipate negli armadi, nonostante i gel idroalcolici esposti accanto agli svuotatasche all’ingresso di casa. Pensavamo che dopo il Covid sarebbe cambiato tutto – gridavamo “Ce la faremo” dai balconi e parlavamo di come la distanza ci avrebbe fatto rivalutare tutto, di come il personale sanitario fosse composto da eroi, di come fosse ingiusto veder crollare la sanità sotto il peso di un virus invisibile. E invece, sul lungo termine, è cambiato poco, per non dire niente: siamo ancora qui a sminuire tutto come “un banale raffreddore”, ad intasare i Pronto Soccorso senza ricordarci dell’esistenza della medicina di territorio, a ignorare che la vaccinazione di un singolo immunocompetente protegge tanti immunocompromessi. E mi perdonerai l’amarezza con cui lo dico – e accetterai che mi ci metta anche io, tra i colpevoli di questo comportamento, perché l’effetto massa raramente rende più virtuosi.
Perciò, 2026, niente pandemie, niente epidemie di virus influenzali e parainfluenzali iper-virulenti, niente focolai di West-Nile o altre arbovirosi neglette. Non mi toglierai il lavoro, tanto – c’è ancora moltissimo su cui dobbiamo lavorare.
Ci sono gli ospedali, che vanno riempiendosi di batteri multiresistenti– e mi piange il cuore nel constatare che la cura dei pazienti diventa, in questo caso, un’arma a doppio taglio – e di infezioni correlate all’uso stesso degli antibiotici – come le temibili coliti da Clostridioides difficile, in grado di terrorizzare reparti interi. Ci sono i poliambulatori del territorio, dove le infezioni viaggiano insieme alle storie dei pazienti e dove gli strumenti diagnostici limitati a volte sembrano rappresentare un limite invalicabile. Ci sono i Check Point, dove si cerca di combattere lo stigma e di aumentare la consapevolezza nei confronti di un virus, quello dell’HIV, che a volte viene dimenticato e che invece continua a ribollire sotto la superficie.
Ci sono i Paesi lontani, che sono più vicini di quel che si pensi, che hanno mani tese verso tutte le forme d’aiuto possibili, tra spaccati d’umanità meravigliosi e risorse troppo limitate.
Ci sono SerD, ambulatori di Medicina dei Viaggi, Cliniche e task force di Infection Control – c’è uno spaccato di mondo sempre più ampio e sempre più bisognoso di un occhio infettivologico.
Avremo da fare come medici – e come infettivologi ancora di più.
Allora ti chiedo, 2026, se possibile, qualche strumento in più, per quest’anno: meno disinformazione e più consapevolezza – riguardo ai vaccini, riguardo agli antibiotici, riguardo al rischio di trasmissione delle malattie infettive, riguardo a ciò che succede là dove il nostro occhio non arriva. Ti chiedo più storie in grado di smuovere le coscienze, ma ancor più storie in grado di passare sotto silenzio perché finite bene. Ti chiedo più tutele per il personale sanitario, perché non c’è cura senza medici, e più formazione possibile, di quella che vada ad abbracciare non soltanto le conoscenze tecniche, ma anche i lati umanistici.
Ti chiedo di aiutarci a poter svolgere questa nostra professione senza eroismi e senza scandali – ad essere riconosciuti nel nostro valore non soltanto nei contesti d’emergenza.
Mi sembra poco, tutto sommato.
Io nella mia lista dei buoni propositi ci metto anche quello di continuare ad avere passione e curiosità; ci metto quello di non lasciarmi sopraffare dal lavoro ma anche di aggrapparmi con forza all’umanità che esso comporta; ci metto quello di impegnarmi nell’educare, divulgare e condividere anche quel -poco- che so.
Facciamo un patto, 2026, allora, ti va?
E se poi ti va di farmi un ultimo, piccolo favore, sarebbe bello se riuscissi ad evitare che le parole “malattie infettive” scatenino smorfie di disgusto nei miei interlocutori.
Che alla fin fine, faccio davvero il lavoro più bello del mondo.
Silvia Guerriero
Medico Specialista in Malattie Infettive
Università Cattolica del Sacro Cuore
Fondazione Policlinico “A. Gemelli”, IRCCS, Roma
